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PERCHE’ LA PUBBLICITA’ CI PIACE ”TRADIZIONALE”

Mattia Schieppati

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Uno degli aspetti divertenti delle neuroscienze (divertente, pur essendo un tema serissimo) è che… l’osservazione neuronale non conta balle. La rilevazione delle reazioni delle diverse aree dell’encefalo agli stimoli è infatti netta: o un’area si attiva, oppure no, non ci sono filtri, bugie, controattivazioni razionali messe in atto consciamente per mascherare, mediare, dare versioni di comodo. Questo, in un’epoca in cui si parla tanto di «post verità» e di bufale mediatiche, non è cosa da poco.

Lo so, l’ho presa un po’ alla lontana, ma a colpirmi è stata la pubblicazione di una ricerca realizzata dalla società statunitense Neuro-Insight (http://www.neuro-insight.com/article/this-neuroscience-study-says-ads-are-more-effective-on-publishers-websites-than-social-news-feeds/) su come cambia l’efficacia di impatto di messaggi pubblicitari sul pubblico (nello specifico, video adv) nel caso questi siano fruiti attraverso siti di informazione di editori «tradizionali», piuttosto che attraverso il news feed di un social network (Facebook, LinkedIn, eccetera…). Una questione che quindi tocca lo specifico massimo di chi opera nella comunicazione, e magari comunicatori che stanno proprio cercando nuove strade per costruire una comunicazione diversa.

Bene, quel che l’analisi neuronale dimostra è un dato molto prezioso, e che ho trovato sorprendente perché ribalta la narrazione imperante a livello mediatico: quella vera e propria post-verità ormai acquisita secondo la quale l’editoria (quella che appunto i profeti della contemporaneità chiamano “tradizionale”) sarebbe con un piede o forse già due nella fossa, e che il futuro della comunicazione pubblicitaria sarà questione solo per pochi grandi colossi del digital, non-editori (Google con Google Ads, Facebook…) ma in possesso della tecnologia per piazzare l’adv proprio dove l’utente vorrebbe che fosse, e quindi massimizzare la fruizione.

La ricerca basata su una sperimentazione effettuata su un campione di 100 utenti messi sotto mappatura neuronale durante la libera fruizione di contenuti online dimostra che così non è. Ed evidenzia che i meccanismo di fruizione dei contenuti online che il nostro cervello adotta sono “più intelligenti” dell’intelligenza artificiale e dei bot ottimizzati in qualche avanzatissimo centro di ricerca della Silicon Valley per “fregare” il cervello di chi naviga inconsapevolmente.

Un’audience più coinvolta (e attenta)

Infatti, durante l’esperimento, al campione di persone scelte sono stati sottoposti, nel corso di una navigazione mista attraverso siti di realtà editoriali (Forbes, Time, The Atlantic, Condé Nast) e siti di social network, dei filmati adv, gli stessi per entrambe le tipologie di “canale”. La mappatura neuronale effettuata in tempo reale durante la navigazione ha dimostrato che le quando i filmati adv venivano fruiti attraverso siti di case editrici veniva rilevata una maggiore attivazione (fino al 16% in più) delle aree del cervello responsabili della concentrazione e del coinvolgimento emotivo.
Non solo: la pubblicità vista sul sito di un editore attiva per il 19% in più il lato sinistro dell’encefalo, la metà “razionale” del cervello, e quindi significa che quei messaggi pubblicitari promettono una persistenza maggiore nella nostra memoria a lungo termine; e impatta l’8% in più anche sulla metà emotiva, ovvero fanno scattare un maggiore engagement emozionale.

Al di là della forza o meno dello spot, già il fatto di fruirlo all’interno di un “contesto” (il sito di una casa editrice piuttosto che di un social network) cambia profondamente la percezione che il cervello ha del messaggio che viene trasmesso. È come se, inconsciamente, il nostro cervello prestasse più attenzione e concedesse maggiore fiducia a un’adv trasmessa da un brand editoriale tradizionale, mentre risulta essere più “distratto” e meno coinvolto quando incappa nella pubblicità scorrendo la timeline di Facebook. Il “mezzo”, quindi, conta, tanto quanto (o forse più che) lo stesso contenuto dell’adv.

Centri media, meditate!

Si tratta di dati, scientifici, che vanno ampiamente in contrasto con il fatto che oggi, a livello mondiale, l’85% dei ricavi da traffico pubblicitario online finiscono ad aziende tech come Google e Facebook, mentre l’editoria è costretta ad accontentarsi delle briciole.
Per chi fa comunicazione, ma anche per le aziende che pianificano e investono in campagne online, questo scollamento tra risposta neuronale “reale” degli utenti allo stimolo e i trend di mercato è un dato da non sottovalutare.
E se ci si basa solo sui dati di traffico, anziché magari provare ad adottare metriche e metodiche nuove per valutare l’impatto della propria comunicazione, si rischia probabilmente di buttare i propri soldi. Le numeriche dei click, dei numeri di traffico, del pay-per-view, insomma, potrebbero non essere l’unico riferimento discriminante da valutare quando si decide dove e come sviluppare una campagna di comunicazione digitale.
Il rilevamento empirico e la matematica applicata alle neuroscienze potrebbero aprire nuovi squarci di verità nella vulgata corrente di centri media e uffici marketing.

Perché il cervello, messo alla prova, non conta balle. La Silicon Valley, magari, qualche volta sì…

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