Customer Minding

science in customer experience

ARCHISTAR, STUDIATE LE NEUROSCIENZE

Mattia Schieppati

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Chiariamo bene una cosa, prima di farci prendere troppo la mano, e visto che il tema comincia a circolare anche al di fuori dei piccoli gruppi di specialisti: le neuroscienze applicate alla quotidianità non devono essere pensate solo come strumento per VENDERE meglio, ma sono un’opportunità per VIVERE meglio (“vendere” è una conseguenza: se sto bene, sono più portato a godermi la vita e ogni istante, con tutto quel che ne consegue, shopping compreso…).

Il Customer Minding parte da questa convinzione, dal desiderio di mettere non solo la persona/cliente al centro, ma di mettere al centro il suo cervello e applicando nuove discipline al suo ben-essere complessivo. Rimettere il cervello a suo agio, dopo aver capito bene come funziona.

Per esempio? Uno sviluppo molto interessante del customer minding è quello che applica i ritrovati delle neuroscienze alla progettazione architettonica dei luoghi di lavoro, o alla progettazione urbanistica delle città.

La logica è, anche in questo caso, orientata al prodotto (impiegati più felici = maggiore produttività, ovvio), ma quel che è interessante osservare è il processo in atto: il fatto che gli studi di architettura che lavorano con le grandi aziende, colossi che raggruppano migliaia di dipendenti in migliaia di metri quadrati, da sempre considerati alla stregua di polli in batteria, comincino a guardare con grande interesse al mondo delle neuroscienze e dei biologi molecolari come risorsa importante in una progettazione che sia più «umana».

L’obiettivo è progettare spazi tenendo conto dell’impatto che muri, corridoi, scrivanie, vetrate, acciai piuttosto che materiali naturali hanno sulle sinapsi del nostro cervello. Una disciplina nuova, dove fino ad ora si è ragionato col buon senso innato degli architetti (prendendo, a volte, sonore cantonate, come vedremo), ma che ora aggiunge alla carta millimetrata, al Cad e ai rendering strumenti come il caschetto per l’elettroencefalogramma in movimento, che monitora millisecondo dopo millisecondo la reazione del cervello agli stimoli spaziali. Trovo sia una passo in avanti fenomenale!

Ecco alcuni luoghi comuni sui “luoghi comuni” di lavoro che l’osservazione dei neuroni ha sfatato:

– Soffitti alti.

Belli, bellissimi, danno l’idea di un ufficio arioso, dove il pensiero circola libero. Ma forse pure troppo. Il soffitto alto provoca, a livello neuronale, una dispersione della concentrazione, perché lo slancio della vista verso l’alto stimola l’area meditativa-spirituale del nostro encefalo. Il cervello, insomma, si mette a inseguire pensieri autoriflessivi (le fatidiche domande: chi sono io? Che ci faccio qui? Qual è il mio destino?) che poco si conciliano con la chiusura di un bilancio o con la stesura di una strategia di marketing vincente. Del resto, vi siete mai chiesti perché gli architetti del 1300 costruissero quel po po di cattedrali con soffitti infiniti retti da guglie chilometriche? Soffitti bassi, dunque, perché l’ufficio non è un luogo per filosofi.

– Muri o vetrate?

Se il vostro mestiere è il broker finanziario, oppure una qualche professione che implichi lo stare costantemente sulla corda e il bisogno di prendere decisioni cruciali ogni due secondi, scordatevi quei begli uffici pieni di vetrate che guardano dall’alto lo skyline cittadino in stile Wolf of Wall Street. Il meglio, in questo caso, e starsene seduti di fronte a una parete blu: forse fa meno figo, ma è questo il colore che tiene più di ogni altro il cervello in stato di costante allerta. Certo, dopo una settimana a fissare il muro blu probabilmente verrete ricoverati per eccesso di stress, ma questo è un altro discorso.

– Smettiamola con gli open space!

Anche questo, un mito molto americano, da sempre associato al felice caos produttivo, allo spazio aperto in cui circolano le idee che fanno grande l’impresa. Balle. La mancanza di riferimenti di prossimità scatena nel cervello una condizione di micro-panico permanente, condizione che il cervello è attrezzato a gestire e controllare senza farcela percepire, ma che comunque assorbe energie e distrae in parte i neuroni da quello che dovrebbe essere il loro lavoro quando siamo al lavoro. Lavorare, appunto. Quindi, il caro vecchio ufficietto, magari con la foto di moglie-bimbi-labrador sulla scrivania, è molto più produttivo del brillantissimo open space.

– Il Google-style è una balla.

E veniamo a smontare l’ultimo mito: gli uffici in stile Silicon Valley, con bigliardini e tavoli da ping pong alternati alle scrivanie, con i corridoi trasformati in piste da skate e via discorrendo sono perfetti se si vuole girare lo spot del nerd ventenne che con un bit cambierà il mondo, ma se in quel luogo di lavoro ci dovete andare ogni giorno, e magari a fine mese aver pure combinato qualcosa, allora tutti questi simpatici gadget fanno a pugni con le esigenze “serie” del nostro cervello. La nostra corteccia cerebrale prefrontale, quella dedicata al problem solving, se sollecitata da troppi stimoli va in stallo. Quella che banalmente chiamiamo “distrazione” è in effetti una reazione cerebrale misurabile, una sorta di “passaggio di competenze” tra diverse aree del cervello. Bene, più sono gli stimoli, più l’area della concentrazione è costretta a cedere energia ad altre aree del cerebro, fino ad andare in completo stand by. Il 20enne nerd di cui sopra, insomma, avrà un cervello più concentrato a percepire, analizzare, catalogare e riporre stimoli esterni, che non a  risolvere l’equazione che ha sul monitor davanti a sé. Non solo: l’eccesso di stimoli genera nei nostro recettori una sorta di adrenalina permanente, che consente sì di essere sempre svegli e reattivi, ma alla lunga provoca un invecchiamento accelerato delle cellule cerebrali, con tutto quel che (di non buono) ne consegue.

Fine dell’elenco: so che oggi andrete in ufficio con occhi diversi, ma magari potrete, nel vostro piccolo, cominciare a customermindizzare la vostra scrivania; sarebbe un ottimo micro esperimento.

Per approfondire questi “stimoli” su neuroscienze e progettazione archiettonica (senza esagerare, mica che vi invecchino le cellule cerebrali), una buona fonte sono gli studi effettuati dall’Harvard University Center for the Environment. (http://environment.harvard.edu/), quelli del neuroscienzato John Medina della Washington University (http://bioe.uw.edu/portfolio-items/john-j-medina/), che ha avviato una ricerca in collaborazione con lo studio di progettazione newyorkese NBBJ, e le ricerche visionarie che stanno sviluppando il Senseable City Lab del MIT (http://senseable.mit.edu/) e il Centric Lab della University of London (www.thecentriclab.com/), applicando le neuroscienze alla progettazione urbana.

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